Dolceamara Yangon, o Rangoon come si diceva una volta..

Inizialmente avrei voluto passarci due settimane piene, visitare più posti possibili, e scoprire quanto possibile di questo paese dal passato turbolento, che solo recentemente ha aperto le porte al turismo e ai visitatori. Poi, dopo un discussione e un compromesso con la mia compagna, il viaggio è stato spezzato in due, e alla Birmania, o Myanmar, è stata dedicata solo una settimana. Prima tappa è ovviamente Yangon, la vecchia capitale che io sempre conobbi come Rangoon, nome con cui, sono certo, è stata conosciuta dalla maggior parte di coloro che hanno più di trent’anni.

La mia compagna ed io arriviamo la sera di sabato 25 gennaio e troviamo una città abbastanza caotica, con un traffico intenso e un’aria inquinata e pesante. Mentre cerchiamo un ristorante per mangiare qualcosa, ci sentiamo avvolti da un’atmosfera strana, come se questo luogo volutamente non ci faccia sentire ben accolti. Ovviamente è solo un’impressione, eppure la percepiamo entrambi. Prima di andare a dormire, ci sdraiamo sul letto con una cartina di Yangon per stabilire come passare la prossime giornate. La città si può dividere in due parti, quella meridionale che si affaccia sul mare, e quella al nord, dove si trovano templi importanti e che necessita di mezzi di trasporto per essere raggiunti. Decidiamo, per il giorno seguente, di visitare la parte Sud.

Questa zona è composta di fitte vie parallele e traverse, densamente popolate, fra le quali abbondano disparati esempi di varie culture e religioni. Gli edifici sono per la maggior parte  adibiti ad appartamenti, lasciando i piani terra ad attività commerciali. I templi buddisti ovviamente sono in maggioranza ma anche le altre religioni, e le diverse confessioni, trovano spazio. Chiese anglicane e cattoliche (Fortuitamente passo anche davanti ad una di culto armeno), moschee, templi induisti e persino una sinagoga svelano una molteplicità che rende difficile inquadrare questo posto.

(ecco un esempio di diversi luoghi di culto, ammetto che di fronte alla chiesa armena ho provato un’emozione non comune..)

I venditori ai lati delle strade, uomini e donne di chiara etnia indiana che mostrano vassoi di dolci e di cibi tipici indiani, insieme agli odori di spezie e alla grande densità urbana ci danno l’idea di essere in India. Una strada che ospita un mercato e che percorriamo tutta, rafforza la nostra impressione. Si vende di tutto qui, le merci vengono poste direttamente sul terreno, le condizioni igieniche destano attenzione, e un’po anche di preoccupazione. Mi vanto di avere lo stomaco forte, di averne viste e vissute abbastanza per non impressionarmi di fronte al lerciume ma in questo mercato faccio fatica a tenere lo sguardo sulle merci e sui venditori. Una visione particolare mi resta ancora impressa adesso, a distanza di diversi giorni dalla mia visita in Birmania. Una giovane ragazza, seduta per terra, con di fronte a se un tagliere e diverse carcasse di polli. Sul tagliere una mannaia insanguinata e sui piedi della venditrice schizzi di sangue e brandelli di interiora di varie animali, principalmente pollame.

(Questo è l’inizio del mercato, più si prosegue, meno si trovano spazi liberi e meno si presta cura alla pulizia)

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Pesci ancora vivi che sguazzano sull’asfalto non lontano dalla spazzatura dove ogni tanto affiora il muso di qualche topo, per non dire ratto. Ristoratori che a prezzi irrisori mischiano ingredienti vari, spaghetti e spezie e li mescolano con le mani. Questo mercato è rumoroso e talmente affollato che necessita di molto tempo per poter essere attraversato, il che rende ancora più dolorosa, e rivoltante, l’impresa di oltreppassarlo tutto. Non appena usciti volgo lo sguardo verso la mia compagna, visibilmente sconvolta, che mi ammonisce, o mi implora non capisco bene, di fare in modo di non ritrovarci mai più in una situazione simile. Non sarebbe stato particolarmente semplice nella città di Yangon tentare di accontentarla.

La parte che da sul fiume, e che ci immaginavano come un suggestivo lungomare da godersi passeggiando con calma di rivela in maniera piuttosto diversa. Le strade sono polverose, alcune bancarelle vendono cibarie in un ambiente poco salubre dove non mancano spazzature e un numero davvero notevole di cani randagi. Si percepisce molto chiaramente un senso di trasandatezza non tanto da coloro che lavorano o popolano quelle strade, ma è come se la società non si curi di rendere più eleganti, vivibili e accessibili part storiche o importanti della città. Altro chiarissimo esempio viene dato dai vecchi edifici coloniali inglesi, i quali potrebbero essere una perla di Yangon, se solo venissero restaurati, invece di essere lasciati all’incuria e all’abbandono.

(Questo è un buon esempio, palazzo vicinissimo al lungofiume e potenzialmente bello, totalmente abbandonato. La seconda foto mostra quello che dovrebbe essere il lungofiume)

Non vorrei dare un’idea troppo negativa di questo luogo, esistono luoghi che mostrano un’attenzione per il decoro e per la pulizia. Il centro città, dove sta il palazzo di giustizia e il parco Maha Bandula, sono un esempio di area abbastanza ben tenuta.

A Yangon, e in tutta la Birmania, il Buddhismo è la religione maggioritaria, e i suoi templi sono indubbiamente una delle attrattive maggiori, se non la maggiore, del paese. In tutti i suoi templi è richiesto esplicitamente di togliersi le scarpe e anche le calze, se non lo si fa, si viene subito ripresi da qualche custode o fedele, non di rado anche in maniera decisa, quasi violenta (Questo carattere deciso, a volte ineducato, dei birmani è uno dei fattori che ci ha fa sentire quasi indesiderati in questa città). Quindi, io e la mia compagnia ci abituiamo a metterci e toglierci le scarpe che molta frequenza. La fede Buddhista dei locali è palpabile, visibile, e apparentemente molto sincera.

(Templi vari e fedeli in processione e preghiera)

 

 In tutti i templi che visitiamo, alcuni dei quali affermano di conservare le reliquie del Buddha stesso, i fedeli che pregano sono tanti, le statue sono trattare con indubbio rispetto, pulite e venerate sentitamente. Non sto qui a descrivere tutti i templi visitati (Compratevi una giuda turistica, o cercate su Internet se volete) i quali sono tanti, trovo comunque necessario spendere qualche parola sul maggior tempio di Yangon, la pagoda Shwedagon, simbolo non solo della città, ma anche dell’intero paese. Circondata da parchi e da laghi, questo antichissimo tempio sorge su una collinetta nella zona nord della città e sovrasta una parte di essa. L’ingresso per gli stranieri non è economico, come altri luoghi in Birmania, ma il prezzo del biglietto vale la bellezza della complesso. In esso ci sono numerosi riferimenti e cimeli della vita del Buddha, ma quanto mi colpisce maggiormente resta il forte bagliore che le cupole dorate e il marmo bianco riflettono e che quasi mi accecano, tanto che a brevi intervalli devo chiudere gli occhi o infilarmi in qualche stanzetta o corridoio per sottrarmi allintensa luminosità. Il Buddhismo parla di illuminazione, di luce che libera l’uomo dalle tenebre del proprio essere e dalle vacuità e illusioni del mondo, indubbiamente in questo tempio hanno architettonicamente saputo render bene il pilastro del pensiero del Buddha.

Resta comunque ambiguo e indecifrabile per me il carattere dei birmani, i quali hanno indubbiamente avuto comporamenti piuttosto decisi, maleducati e poco comprensivi nei nostri confronti, in altri casi invece hanno mostrato disinteressata pazienza, e desiderio di presentar bene se stessi e la propria società. Sono stato pochissimo a Yangon, e ovviamente non posso esprimere un giudizio, eppure nella maggior parte dei luoghi dove sono stato, e non sono pochi, sono riuscito ad avere un’idea, positiva o negativa, corretta o incorretta, ma sempre sono andato via con un sentimento nel cuore. In questa precisa città non riesco ad averlo, non posso dire di aver assaggiato quel tassello di anguria che mi da un quadro del posto, della cultura e della società appena visitata. Tanto sono confuso che mi riprometto di tornarci, cercando con enormi difficoltà di convincere la mia compagna, la quale, a differenza mia, non mostra desiderio di voler chiarire l’enigma Yangon.

Prima di spostarci da Yangon a Bagan e di terminare questo racconto, merita di essere raccontato l’aspetto culinario di Yangon, che offre un misto di oriente, occidente, Cina, e India. Come già scritto, i chioschi in strada offrono cibi a qualsiasi ora del giorno e della notte, ma pullulano anche ristoranti di vario genere, alcuni di essi attenti anche al vegetarianismo. A Yangon, beviamo birre inglesi, a prezzi inglesi, e nello stesso stabilimento assaggiamo piatti di noodles per meno di un euro. Riso basmati, nan (Tipo di pane schiacciato) indiano o persiano sono di larghissimo uso e in tutti i ristoranti locali sono facilmente trovabili. Si mangia molto Tofu, tipico alimenti cinese e giapponese, per quanto la versione birmana non sia di mio gradimento. Insomma, difficile inquadrare questa cucina in un solo punto, essa spazia per tutta l’Eurasia riflettendo, naturalmente, la complessità e la molteplicità della storia e dei popoli che l’hanno compiuta e vissuta.

P.S. Si mangia bene…

(qui sotto c’è di tutto, birre birmane, piatti indiani, stufato di pollo, insalata di cipolle e granturco, banane caramellate etc.etc.)